of nature and reached a level of intellectual
asceticism that we may not entirely seek to prac-
tise in everyday life, but at least we are thinking
about it.
We also have begun to choose white just because
we can: Decorating our homes with white
carpets, white furniture and white accessories
would have been unthinkable before central
heating replaced dirty fireplaces and vacuum-
cleaners replaced brooms; before we had wash-
ing machines and indoor bathrooms with hot
running water, wipe-clean surfaces and enclosed
means of transport.
White is the colour of our technological world.
Funnily enough it is also the colour that our
technological world was predicted to have back
in the middle of the 20th century. It wasn’t just
the Beatles who revolutionised our aesthetic
with white. Stanley Kubrick, with his (oh-so-
frequently cited) film 2001: A Space Odyssey,
(also 1968) picked up on new material develop-
ments in the furniture industry to create a futur-
istic form world that was almost exclusively
clothed in white.
When Dieter Rams and co. revolutionised the
domestic technology industry in the late ’50s
and early ’60s, their designs were full of white.
Rams’ first best-selling new stereo system, the
SK4, designed together with Hans Gugelot, was
even nicknamed “Snow White’s Coff in”. Later,
in 1984, there was another white breakthrough:
the designer Hartmut Esslinger changed the
look of a PC for a computer manufacturer called
Apple. He lightened up and softened the cum-
bersome form and made it creamy white instead
of beige. The PC was nicknamed “Snow White”,
sold 50,000 on the first day, and another design
legend was born. In 2000 the Apple design team,
headed by Jonathan Ive, introduced a translucent
white iMac called, you guessed it, “Snow”. A
“Snow” iBook followed a year later along with
a small, white, highly desirable audio player –
the iPod.
Just for comparison, whereas the Beatles’ White
Album has sold 19 million copies in the U.S.
alone****, Apple sold nearly 140 million iPods
worldwide between 2001 and 2007*****. It
probably goes without saying, that it is the
biggest-selling digital audio player series of all
time. And although not all iPods are white by
any means, it is the white incarnation that is the
iconic one. By the way, the name, so the story
goes, comes from the white EVA pods belong-
ing to the Discovery One spaceship in 2001:
A Space Odyssey.
The iGeneration white is not a solid white, it is a
translucent white; a white that is beginning to
conquer other surfaces from building skins to
automobiles and interiors. It has something of
the ephemeral quality of snow about it; a colour
that is not a colour and yet all colours at once,
just a trick of the light refracting through trans-
parent planes. It continues to fascinate and
dazzle us with its promise of unsullied purity
that lifts us above and beyond the mortality of
colour. It can be no coincidence that the white
iPod has become the symbol of our contempo-
rary zeitgeist. Interestingly, whilst the form and
colours of the product may be changing and
evolving, the accompanying white headphones
have remained the same. In cities all over the
world the streets are filled with young people
wearing white wires leading to little, rounded
plugs in their ears. They could be discrete and
hidden but, being white, they become a state-
ment: the wearer is showing that they are in
another world, transcending the ordinary. A
white world, where colour is sound and the
sound of white is Kandinsky’s silence full of
possibilities. —
*
“Snow White 11-0602” Pantone colour
**
Concerning the Spiritual in Art, Wassily Kandinsky, 1911.
***
http://www.societyofcontrol.com/whitecube/insidewc.htm
****
Billboard Magazine quoted in:
http://en.wikipedia.org/wiki/The_Beatles_(album)
***** Apple Inc. (22 January 2008)
“Il bianco ... non è solo assenza di colore; è
qualcosa di splendente e positivo, ardente come
il rosso e al tempo stesso netto come il nero ...
Dio dipinge in molti colori, ma mai in modo
tanto vistoso, quasi direi sgargiante, come
quando dipinge di bianco.” G. K. Chesterton,
1874 –1936.
Come parlare del bianco, se non si può neppure
definire un colore vero e proprio? Se la luce
bianca si genera mescolando insieme tutti i colo-
ri dello spettro elettromagnetico, per ottenere
una superficie dello stesso colore occorre, al
contrario, eliminare qualsiasi altro elemento cro-
matico. Il bianco è ciò che resta dopo aver tolto
ogni altro colore: uno spazio vuoto, acromatico,
senza tonalità. Il bianco è al tempo stesso tutto
e niente; è l’incolore che racchiude in sé tutti i
colori; è suono e luce, caldo e freddo, gioia e
tristezza, bene e male; latte e zucchero, velocità
e cocaina; è il colore di dio, delle vergini, della
morte e della vita eterna. La parola bianco è un
paradosso talmente ambiguo da mettere in
ombra perfino il suo opposto, il nero.
Il bianco esercita su di noi un potere immenso.
Interviene direttamente sulla nostra percezione
degli oggetti e dell’ambiente che ci circonda.
“Il bianco”, secondo una citazione di Wassily
Kandinsky, “è un silenzio profondo e assoluto,
pieno di opportunità”**. Immaginiamo di andare
a letto in una fredda e buia sera d’inverno per
scoprire al nostro risveglio che il paesaggio al di
là dei vetri è ricoperto da una coltre di neve.
Ogni differenza è annullata, ogni spigolo diviene
rotondo e morbido, tutti i suoni sono ovattati,
quanto di brutto e sporco ci circonda torna
incontaminato, puro e bello. Quale cuore non
palpita di infantile eccitazione di fronte allo
spettacolo più magico e toccante di madre
natura? Arcaica e speciale, la neve è la forma
di bianco più antica che conosciamo, eppure
ancora ne subiamo il fascino. Forse le sensa-
zioni che proviamo e le reazioni che abbiamo di
fronte al bianco derivano proprio dalla nostra
esperienza con la neve. La neve è purezza e
vuoto, resa preziosa dalla sua delicatezza
fragile e transitoria. Quando il sole splende, la
neve abbaglia, con una luce bianca accecante
che ci sgomenta ed è simile a Dio, perché non
riusciamo neppure a guardarla.
Ci piace pensare al bianco come a una tela da
dipingere, a un palcoscenico vuoto: un nulla
puro e neutro. Un appartamento appena ulti-
mato, bianco e vuoto, che i nuovi proprietari
riempiranno con il loro carattere e le loro cose.
Una tavola apparecchiata con piatti bianchi e
vuoti da riempire con il cibo. La pagina bianca
di un blocco per appunti su cui tracciare parole
e schizzi. Il bianco rappresenta così uno spazio
di transizione, uno spazio in attesa di contenuti.
L’arte del XX secolo, ad esempio, diventa quasi
sinonimo dell’ideale spazio bianco e uniforme-
mente illuminato in cui viene rappresentata.
Pensate a una classica galleria d’arte contempo-
ranea e, con tutta probabilità, vi immaginerete
una serie di bianchi cubi di spazio pieni di “arte”.
L’immagine è forte e abituale, ma la sua forza
non deriva dall’arte, bensì dal suo contenitore in
apparenza neutro: notiamo prima lo spazio, e
non il contenuto. L’ideale spazio bianco rappre-
senta, nelle parole del critico d’arte Brian
O’Doherty, “più di qualsiasi altra immagine ... la
forma archetipica dell’arte del XX secolo”***.
Abbiamo vissuto così tante scene ambientate
nella semplice neutralità del bianco da percepirlo
in se stesso come la nostra stessa casa.
In qualche momento del nostro viaggio moder-
nista, magari quando ci siamo un po’ soffer-
mati tra le rasserenanti linee del minimalismo, il
bianco ha cessato di essere temporanea man-
canza per diventare mezzo in se stesso, portando
zone di calma nella nostra cultura dell’overdose
visiva. In grafica lo spazio bianco è elemento
vitale che aiuta il lettore a scontornare gli ele-
menti di disegno e a comprendere il testo.
Quanto migliore è l’equilibrio tra questo spazio
bianco negativo e il suo opposto, il contenuto,
tanto più evidenti sono l’impatto degli elementi
grafici, il senso di profondità e la qualità
dell’espressione artistica. La contrapposizione
tra oggetto e simbolica assenza crea, inoltre, un
certo senso di rispetto. Come la galleria bianca
che ospita magari solo uno o due oggetti d’arte,
induce un senso di vivida concentrazione sulla
forma, non dissimile da una semplice cappella
bianca che contiene un solo oggetto di culto, o
da un solo albero in un paesaggio di campagna
sotto una coltre di neve.
I Beatles furono anticipatori nell’usare il potere
dello spazio bianco quando pubblicarono nel
1968 il loro album eponimo, altrimenti cono-
sciuto come “Doppio Bianco”. La band registrò
l’album al ritorno da un viaggio trascendentale
in India, e trova il suo seguito nella stravaganza
barocca multistratif icata di Sgt. Pepper’s Lonely
Hearts Club Band. Il Doppio Bianco non ha
un titolo vero e proprio, e la copertina è del
tutto priva di elementi grafici, ad esclusione
del nome “The Beatles” stampato in rilievo
sulla parte anteriore e del numero di edizione.
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